Si avvicinano anniversari
veramente importanti per la nostra storia recente. Fatti che hanno sconvolto la
società italiana e che hanno turbato per sempre il nostro "modo" di essere e di sentirci Siciliani. Vogliamo riflettere
condividendo queste considerazioni amare di Saverio Lodato.
"La tentazione istintiva
sarebbe quella di beffare il calendario, ignorare l’anniversario tondo”, il
quarto di secolo, non scrivere una riga e respingere al mittente le sollecitazioni
del rito della retorica che in Italia può contare su legioni di officianti.
Verrebbe da dire che non
se ne può più. Non se ne può più di sentir ripetere sempre le stesse cose,
veder riproporre sempre le stesse immagini, battere la grancassa degli “eroi”,
dare voce alla vena straziante della strage di Capaci, perché sul ricordo dei
corpi maciullati di Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonio
Montinaro, Vito Schifani, in molti giocano facile.
E non se ne può più,
mentre parte il Coro di Stato, di assistere al consueto silenzio stucchevole
sulle cose che contano.
Le cose che dovrebbero
contare. E quando diciamo “cose”, ci riferiamo alle risposte che venticinque
anni dopo un'intera comunità, insieme alle sue Istituzioni, avrebbero dovuto
avere il diritto di trovare.
L’abbiamo capito, lo
sappiamo: a Capaci morirono tutti per noi.
Fecero il loro dovere
mettendo in conto che sarebbero stati assassinati. Lo sappiamo bene.
Ma una buona volta si
dicesse anche il resto, quello che non si vuole dire. O è tanto difficile,
tanto innominabile, tanto inconfessabile? La verità taciuta, negata, che pure è
sotto gli occhi di tutti. Di questo qui si sta parlando. Che vogliamo dire?
Che Falcone fu pugnalato
alle spalle dalla Politica, dalle Istituzioni, dal Potere romano e siciliano.
Che Falcone subì, professionalmente parlando, almeno per tre volte la “morte
civile”: quando non venne nominato capo dell'ufficio istruzione di Palermo, quando
non venne eletto consigliere del Csm, quando gli fu impedito di dirigere la
Procura nazionale antimafia. Che proprio lui, all'indomani del fallito agguato
dell'Addaura che lo vide come bersaglio, ci parlò di “menti raffinatissime che
hanno il volto delle istituzioni”. Solo dopo che la sua immagine era stata
abbondantemente scempiata, venne fisicamente eliminato.
E ci accorgiamo, mentre
quest’elenco di ripetute sconfitte di Falcone ci scappa quasi di mano, di non
sapere assecondare quella tentazione istintiva di beffare il calendario al
quale facevamo riferimento all’inizio.
E come potremmo noi avere
la coscienza tranquilla, un quarto di secolo dopo, se non tornassimo a
riproporre la stessa identica, quasi ossessiva, domanda che ancora oggi ci
accompagna: davvero crediamo che ci fu solo Mafia dietro il quasi ventennio
dello stragismo in terra di Sicilia? La risposta, dai processi - e non è che
non se ne siano fatti -, non è venuta. E altri processi ancora ci sono. E altri
ne verranno.
A riprova del fatto che
quella domanda è tutto tranne che ossessiva.
Ogni qual volta viene
fatto un sondaggio, curiosamente impiantato sulla medesima domanda: secondo voi
è più forte lo Stato o è più forte la mafia?, la stragrande maggioranza degli
interpellati si dice sicura che la mafia è più forte. Nessuno se ne cura. I
giornali registrano e tirano avanti in vista della celebrazione
dell'anniversario che schiererà in bella mostra tutte le bandiere e i drappi e
i pennacchi e gli alamari di cui dispone. Come se niente fosse. Nessuno che
faccia il passo successivo con un sondaggio impiantato su quest'altra domanda:
secondo voi lo Stato italiano, in quelle stragi, ebbe un suo ruolo
indipendentemente dal ruolo avuto dalla mafia?
No, la mafia non agì da
sola. Lo sappiamo benissimo. E anche questo la stragrande maggioranza degli
italiani lo sa benissimo.
Giunti a questo punto, non
possiamo esimerci dal fare qualche osservazione sullo stato della lotta alla
mafia. E vogliamo farlo in previsione del 23 maggio: se anniversario deve essere,
che anniversario sia.
Negli ultimi due anni
abbiamo assistito a troppi fatti eclatanti, autentici scandali.
Valga per tutti la
scoperta dell'esistenza di un clan istituzionale che dentro il Palazzo di
giustizia di Palermo era riuscito nel miracolo di fare diventare il sequestro e
la confisca dei patrimoni mafiosi un gigantesco business a vantaggio dei
“soliti noti”. Abbiamo visto imprenditori Paladini della legalità finire in
galera o sotto inchiesta per accuse infamanti. Vediamo che i magistrati di breve
corso negli anni di Falcone e Borsellino sono diventati oggi politici di lungo
corso che si atteggiano a veterani di una materia che da un ventennio non
trattano più.
Vediamo che circolano
troppi soldi, troppi finanziamenti di Stato, a beneficio di una pletora di
fondazioni, centri studi, enti di ogni tipo, le cui finalità concrete sfuggono
agli occhi dell'opinione pubblica.
Vediamo, per adoperare
altri esempi tratti dalle cronache, che nel Palazzo di giustizia di
Caltanissetta e in quello di Milano, i mafiosi hanno tranquillo accesso nelle
stanze più segrete. O che Totò Cuffaro, il presidente della regione siciliana
condannato per mafia dalla Cassazione, tiene lezioni dalla cattedra a aspiranti
giornalisti.
Che cosa dobbiamo ancora
vedere e sentire?
Giovanni Falcone ha vinto?
Abbiamo fatto tesoro delle sue intuizioni, del suo insegnamento?
Maria Falcone, che sarà la
grande madrina delle cerimonie del 23 maggio, racconterà tutto questo ai
giovani che arriveranno da ogni parte d'Italia? Aprirà loro gli occhi su chi
furono i responsabili veri dell'uccisione di suo fratello? Spenderà qualche
parola sulla natura dei rapporti fra lo Stato italiano e la mafia? Dirà
finalmente cosa pensa del processo di Palermo sulla Trattativa Stato-Mafia? Si
accorgerà finalmente che “le menti raffinatissime”, denunciate ieri da suo
fratello Giovanni, sono le stesse che ostacolano oggi Nino Di Matteo nella
ricerca di una stessa verità?
No. Non lo farà. Non può
farlo. Perché ormai da tempo, come scrivemmo di recente, le istituzioni hanno
fatto la scelta di santificare tutte le vittime di mafia. Ecco perché ormai
l’anniversario della strage di Capaci è diventato un appuntamento stanco. E ho
cercato di spiegare perché non ci sarò.
Saverio Lodato